Faccia a faccia con il dolore


Di Dani Noris



Il dramma delle donne acidificate

Sono donne “punite”  per non aver voluto accettare un matrimonio combinato dai genitori, per aver rifiutato  la corte di  un uomo oppure per aver portato una dote inferiore alle attese. Erano donne giovani, bellissime e l’acido solforico, gettato addosso di sorpresa, per strada, in casa o durante il sonno  ha cancellato per sempre gioventù e bellezza bruciando i loro volti, occhi, mani, rendendole cieche, sorde, incapaci di parlare o di masticare. Colpite e segnate per il resto della loro vita attraverso una  vendetta, scelta con sempre maggiore frequenza, oltre a essere deturpate in modo terribile fisicamente sono colpite  nel loro ruolo sociale, che è quello di moglie e di madre.

Bangladesh: fame e violenza

E’ un paese poverissimo con un territorio di 147’570 kmq, 120 milioni di abitanti, 240 USD di reddito pro capite.

Un Paese dove il 66% dei bambini è malnutrito, la mortalità infantile varia dal 77% nelle campagne, al 138% nelle bidonville urbane.

Le donne sono solo il 48% del totale, perché la mortalità delle bambine è più alta, e grande rimane la mortalità per parto.

E’ il  Paese che ha dato all’umanità il grande Poeta Tagore, il luogo dove opera il Premio Nobel Yunus fondatore della Grameen Bank, che ha sostenuto e dato speranza di vita migliore a tante famiglie, offrendo la possibilità, soprattutto a donne, di creare piccole e piccolissime imprese.

E’ un luogo dove da una parte catastrofi naturali e alluvioni  distruggono il Paese e dall’altra le inondazioni rendono fertile la terra permettendo tre raccolti all’anno.

Acido solforico

L'acido solforico (H2SO4), dal punto di vista industriale, è l’acido il più utilizzato perché ha un’infinità di usi. È la sostanza presente nelle batterie delle automobili ma anche l’acido utilizzato per raffinare i petroli, per preparare detersivi, fertilizzanti, coloranti, ecc. Visto il suo ampio uso è facilmente reperibile sul mercato. È un liquido inodore e incolore, manipolato dai chimici con guanti e occhiali protettivi. L’azione di questa sostanza sulla pelle è infatti devastante. Per rendersene conto basti pensare che aggredisce persino la maggior parte dei metalli.

Un volto per la vita

Il progetto “Sigrid Undset”, che ha messo a tema la disparità fra donna e uomo, ci ha fatto spalancare gli occhi su quanto avviene nella nostra società, nelle famiglie, nelle scuole, nelle aziende e su quanto ancora dobbiamo lavorare per costruire un terreno dove la vera uguaglianza possa affermarsi.

Uno sguardo spalancato il nostro, che vuole cogliere il dramma di chi  è vicino e di chi è più lontano e che, attraverso indicibili sofferenze, cercano di affermare la propria libertà e dignità.

Il nostro sguardo oggi si orienta verso il Bangladesh (vedi riquadro). In questo paese le ONG sono centinaia e operano nei settori della sanità, dell’educazione, dello sviluppo agricolo e sociale.

Le organizzazioni internazionali hanno fatto molti sforzi per creare cooperative di lavoro per la popolazione femminile e il ruolo della donna ha fatto notevoli progressi in questi ultimi anni, ma questi passi avanti hanno scatenato una reazione violenta e paradossale da parte di alcuni uomini, che di fronte al cambiamento del sistema tradizionale hanno assunto un atteggiamento negativo che è degenerato, in molti casi, in episodi di vendetta.

Nel Bangladesh fra  stimoli di modernizzazione e rifiuti al cambiamento socioculturale emerge un dramma terribile che condanna  ormai migliaia di donne a sofferenze indicibili: è il dramma della “acidificate” (vedi riquadro).

Non si sa quante vittime questa forma atroce di violenza abbia fatto in questi vent’anni circa, da quando è tornata a diffondersi. Sono alcune migliaia le donne registrate,  ma sicuramente molte altre  vivono questo dramma nel silenzio, senza poterlo denunciare o perché abitano in villaggi discosti, lontani dagli ospedali o perché impedite dalle famiglie che si vergognano. 

In Bangladesh l’associazione Naripokko, che significa “dalla parte delle donne” lavora dal 1995 con le vittime dell’acido per riportarle alla vita attraverso un sostegno psicologico, economico e legale.

Nel giugno del 1998 la giornalista italiana Renata Pisu, con un articolo pubblicato su “D La Repubblica delle Donne”, ha raccontato per la prima volta la vicenda delle donne sfigurate  suscitando una straordinaria solidarietà.

Il fotografo Ugo Panella, impegnato da anni in reportage a sfondo politico e sociale (ricordiamo la splendida mostra fotografica organizzata a Lugano nel 1994 a favore di Caritas Ticino dal titolo: “L’Altra Umanità “) ha realizzato dei ritratti di queste donne, con quella  delicatezza piena di intelligenza e di rispetto che rendono le sue immagini inconfondibili.

Lo abbiamo invitato nel Sigrid Undset Club a parlarci della sua esperienza. La sua intervista è andata in onda a Caritas Insieme, su TeleTicino il 2 e 3 settembre 2000. Ne riportiamo alcuni stralci:

D.: Ugo Panella come è nato questo reportage?

R.:Nel maggio del 1998, mi trovavo in Bangladesh insieme con Renata Pisu per realizzare un reportage per “D La Repubblica della Donne”,  su un cantiere dove vengono smantellate delle navi, in cui  lavorano migliaia di uomini sottopagati e sottoposti a fatiche disumane.

Per un caso assolutamente fortuito, durante un pranzo con persone impegnate in ambiti umanitari è venuta fuori la storia, raccontata in modo sommesso, quasi nascosto, delle donne sfigurate con l’acido solforico.

In Bangladesh la situazione è al limite per vari motivi:  uno perché è sovrappopolata, sono censiti 160 milioni di abitanti, ma probabilmente ce ne sono anche di più, in un territorio che è poco più grande dell’Italia del Nord. Questo significa una compressione, sociale ma anche fisica, di gente che vive a stretto contatto, in cui la violenza è quasi endemica. La donna è riconosciuta socialmente solo con il matrimonio, quindi quando le famiglie combinano un matrimonio e la ragazza rifiuta il pretendente oppure semplicemente quando una ragazza rifiuta le “avances” di un uomo, spesso questo si vendica sfigurandola.  Privando la ragazza della sua bellezza le toglie anche la possibilità della sua realizzazione sociale: non ha voluto sposare lui, ma non potrà sposare nessuno altro.

E’ una reale condanna  sociale, perché tutto l’entourage le rifiuta e sono costrette, se sopravvivono,  a rimanere nascoste.

Spesso gli acidi corrodono al punto tale da ledere organi interni e le donne muoiono quasi subito, ma quelle che sopravvivono non hanno più nessun ruolo sociale.

D.: Come siete entrati in contatto con questa situazione?

R.:Abbiamo avuto un po’ di difficoltà. Ci siamo messi in contatto con una piccola organizzazione del Bangladesh, che si chiama Naripokko, costituita da donne che lavorano per l’emancipazione femminile, ma in un primo tempo si sono rifiutati di riceverci, non sapendo cosa saremmo andati a fare. 

Ci sono voluti vari incontri perché capissero che la nostra intenzione non era di fare uno scoop e di “sbattere il mostro in prima pagina”, come si suol dire, ma era di dare voce a questa tragedia, perché come per tutti i fatti che succedono nel mondo, finché non vengono documentati è come se non esistessero. Così è stato per queste vittime della violenza in Bangladesh, dove da vent’anni migliaia di ragazze  vengono ridotte in fin di vita ma delle quali nessuno aveva mai parlato.

Ho dovuto conoscere la situazione e entrare in confidenza con loro prima di cominciare a fotografare, perché altrimenti si sarebbe interrotto tutto.  Queste ragazze si sono fidate di me e si sono affidate al mio obiettivo, io volevo certo portare alla luce il loro dramma, ma soprattutto desideravo rispettarle, non calpestare la loro dignità, proprio perché sembrava non ne avessero più. Quello che altri uomini avevano distrutto e negato loro, desideravo in qualche modo, con la macchina fotografica, restituirglielo.

Credo che nel mio lavoro questa cosa debba essere sempre tenuta presente, perché molto spesso abbiamo davanti degli esseri umani e il rispetto per loro comporta una scelta diversa dal semplice scattare delle foto.

Quello che vediamo è “protagonista”, noi siamo semplicemente dei testimoni che registrano con una macchina fotografica quello che c’è. Ma quando quello che vedi è talmente devastato, come nel caso delle donne acidificate, devi privilegiare la persona.

Potevo raccontare questa cosa  puntando sul senzionalismo, una fotografia a piena faccia bastava per suscitare l’orrore e probabilmente questo in un primo momento avrebbe anche fatto vendere di più. Ma ho fatto una scelta diversa, ho voluto che in qualche modo la mia fotografia facesse riappropriare della bellezza persa le ragazze che avevo davanti, che erano innanzitutto delle persone e poi un soggetto fotografico.

Mi sono avvicinato in punta di piedi, non solo perché è la tecnica per farsi accettare e per entrare in comunicazione ma per un desiderio assoluto di rispetto.

Questo è il mio modo di procedere in tutte  le situazioni difficili che mi si pongono di fronte, ma questa lo era cento volte di più e quindi richiedeva una sensibilità cento volte superiore.

In qualche modo sono stato facilitato  perché queste ragazze erano talmente belle nel modo in cui si muovevano, per esempio. Avevano perso la bellezza del volto però in alcuni tratti questa bellezza esiste ancora e nessun acido gliela farà perdere mai.

Questa è stata la molla che mi ha fatto capire come avrei dovuto raccontare la loro storia:  puntare sulla bellezza che nessuna violenza potrà mai togliere. Ho lavorato su questo concetto, nel primo reportage e soprattutto nel libro dove ci sono delle foto forti, perché non volevo si calasse l’attenzione sul problema. Però volevo fare delle immagini “visibili” in quanto il primo istinto di chi guarda questa realtà può essere una repulsa. Del resto il fotografo ha sì, una macchina fotografica, però filtra quello che vede attraverso la sua sensibilità, il suo animo, il suo cuore, e anche la sua voglia di essere partecipe. Credo che quello che mi ha ispirato non è stato un concetto di mercato, ma la mia capacità di essere vicino a queste persone.

D.: Sulla copertine/copertina del tuo libro “I volti negati”, c’è il volto di una donna bellissima.

R.: Questa è una storia nella storia!  La foto della copertine/copertina e diverse fotografie all’interno del libro, ritraggono “Bina”, una ragazza che adesso ha 18 anni, ma all’epoca in cui ha subito questa violenza ne aveva 16. La foto mostra la differenza fra com’era prima e com’è stata ridotta adesso. Il suo è un caso particolare perché l’acido non era neanche indirizzato a lei.  Bina si è frapposta fra la cugina e l’uomo che la stava acidificando e si è presa l’acido solforico in faccia. Stava perdendo un occhio ma, anche attraverso il nostro reportage, si sono mosse una serie di organizzazioni e adesso Bina è negli Stati Uniti dove le stanno facendo delle operazioni per salvarle la vista e cercare di ridare al volto una condizione migliore.

D.: Come possono riprendere a vivere queste ragazze, che mezzi hanno per poter fare i conti con il loro volto distrutto?

R.:  Purtroppo molto pochi. Noi abbiamo incontrato le ragazze che avevano deciso di vivere, che sono pochissime rispetto alle tante, sepolte nei villaggi che non hanno il coraggio di venir fuori. Il lavoro che Naripokko sta facendo è anche quello di creare un collegamento, di villaggio in villaggio, facendo sovente il giro, andando dalle ragazze, visitandole, stando con loro, parlando con loro, raccontando le esperienze che stanno facendo, facendole sentire meno sole.

Ma in una società che reprime la donna, uscire allo scopertine/coperto e passar sopra a  quello che la gente dice di loro, richiede una forza d’animo incredibile per cui sono rarissime quelle che ce la fanno.


UN VOLTO PER LA VITA      
Le foto di Panella e l’accorato articolo di Renata Pisu pubblicato  su “D la Repubblica delle Donne”  hanno provocato un’ondata di solidarietà.  Al giornale sono arrivate lettere da ogni parte d’Italia di persone che volevano fare qualcosa per dare una mano alle donne acidificate del Bangladesh.

Una delle più grandi Organizzazioni non governative italiane  COOPI, sollecitata da questi eventi ha deciso  di intervenire con un progetto  chiamato  “UN VOLTO PER LA VITA”, e che vuole restituire a queste donne un volto e una dignità e fare in modo che questa terribile forma di violenza cessi.


IL PROGETTO DI COOPI

Di Silvana Scandone (promotrice del progetto, ospite a Caritas Insieme) 

            

Le poche operazioni (chirurgiche) che saremmo riusciti ad eseguire, magari all’estero, non sarebbero state altro che un palliativo: la risposta da dare é più complessa. Due missioni di COOPI sulle tematiche della chirurgia plastica e della pianificazione e progettazione di interventi sanitari in realtà particolarmente difficili, hanno permesso di individuare le linee basilari del progetto. In campo sanitario COOPI si propone la creazione di un centro di riferimento e il potenziamento delle competenze del personale locale, attraverso corsi di formazione rivolti a personale medico e paramedico. Questo stesso personale, una volta formato, potrà in un prossimo futuro occuparsi direttamente del lato chirurgico.

Il problema non si risolve con la sola operazione chirurgica: l’acido, infatti, oltre a deturpare i volti delle vittime, va a danneggiare gravemente funzioni fondamentali come la vista e l’udito, nonché la mobilità delle parti del corpo.

Per quest’ultima si rende  necessario un lungo trattamento di fisioterapia riabilitativa, ed anche in questo caso è prevista la formazione di personale locale. Unitamente all’intervento chirurgico e alla fisioterapia, significativa importanza riveste il recupero psicologico delle vittime degli attacchi, un lavoro che COOPI sta già portando avanti coinvolgendo nelle sedute anche le stesse famiglie delle donne sopravvissute all’acido.

In campo sociale, il supporto psicologico e la formazione professionale rivolta alle vittime delle aggressioni, rendono possibile il reinserimento delle giovani donne nella società, con un ruolo potenziato dalla loro indipendenza economica, condizione conquistata grazie alla creazione di cooperative di lavoro.

VOLTARE  LO SGUARDO PUO’ BRUCIARE COME L’ACIDO

Chi ha deturpato il viso di queste donne aveva uno scopertine/copo preciso: emarginarle, devastarle tanto da renderle repellenti allo sguardo. In Bangladesh ogni giorno donne che vogliono affermare il proprio diritto di scegliere subiscono la violenza più dolorosa, quella che brucia la dignità oltre la bellezza. Ecco perché aiutare queste donne significa fare della solidarietà l’arma più forte contro chi le ha sfigurate, uomini che pretendono amore e distribuiscono morte. 

Chi vuole sostenere il progetto COOPI può contribuire con un versamento sul C/C postale N. 902205, C/C bancario N. 10.000 (Credito Italiano Agenzia 36 Milano: ABI 2008 CAB 1636) intestati a:

COOPI - Un volto per la vita, via De Lemene 50 - 20151 Milano,

o a Caritas Ticino CCP 69-3300-5 specificando: “Un volto per la vita”